Siamo solo all'inizio, alle schermaglie, ma si capisce che la posta in palio è alta.
La borghesia nazionale si è ampiamente mobilitata, approfittando di quel cambio della guardia a Palazzo Chigi che la libera dopo anni dall'imbarazzo berlusconiano.
E giù a dire che il mercato del lavoro va riformato, che ci vuole più flessibilità.
Personalmente non sono affatto meravigliato delle parole che l'intelligentsia pronuncia da giorni per mezzo stampa e simili.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare arrivo persino ad apprezzare la lettera di Scalfari alla Camusso, più di quanto mi capita di fare con la risposta della segretaria confederale della Cgil.
E già che, mentre il vecchio direttore si muove in linea con la sua classe sociale di riferimento e con il suo pensiero di sempre, la posizione della sua interlocutrice è molto più complicata.
Correttamente Scalfari dice che il sindacato non può comportarsi come qualche decennio fa, semplicemente perché non ha più il seguito di una volta: non è rappresentativo.
La Camusso, invece, fa un discorso infarcito di una retorica insopportabile, se messa in relazione con ciò che la direzione della sua organizzazione ha fatto in una miriade di vertenze: parliamone dei servizi pubblici di assistenza dati in mano alle cooperative, su cui da anni non si muove una foglia; oggi molti lavoratori del terzo settore lavorano con contratti scandalosi e non sapendo mai se il loro stipendio alla fine arriverà.
Tanto per fare un esempio.
Di Cisl, Uil e compari non si può neanche parlare in termini di forze sindacali.
E' questo il dramma per noi lavoratori: siamo soli.
Non esiste alcuna rappresentazione genuina ed autonoma della nostra condizione sociale e dei nostri interessi.
Qualunque sia, perciò, la riforma che andrà ad investire l'ambito del lavoro, saranno i dipendenti ed i precari a subirla.
Lasciamo perdere il fatto che le manfrine di confindustria, di Marchionne e degli altri sulla produttività non hanno alcun valore scientifico: quando le merci non si vendono, il problema non è si è più o meno efficienti nel produrle, ma che quel mercato è saturo e non ripaga gli investimenti fatti in quel dato settore (e che certamente la progressiva erosione del potere di acquisto di milioni di salariati non può aver inciso in positivo nell'economia).
Lasciamo perdere anche che la vera perdita delle aziende è costituita da disfunzioni e retribuzioni sproporzionate a livello dirigenziale, come tutti quelli che lavorano nel mondo reale sanno.
Il dato drammatico è la mancanza della voce delle classi subalterne, che hanno poco tempo e pochi mezzi in questo momento per esprimere il proprio gigantesco disagio giuridico ma anche esistenziale.
Un dato con cui non si misurano di certo né il Pd dei mille interessi imprenditoriali, né l'Idv che è un partito che esaurisce la sua missione con l'antiberlusconismo, né tantomeno il partito-movimento-rete (boh!) di Vendola, il quale riproduce all'ennesima potenza le contraddizioni che hanno distrutto l'esperienza di Rifondazione Comunista.
E' necessario che in questo momento i lavoratori inizino a far sentire le proprie ragioni al di là ma, soprattutto, al di sopra di un mondo politico e sindacale assolutamente non in grado di supportarli adeguatamente.
Le occasioni non mancheranno.
lunedì 30 gennaio 2012
giovedì 26 gennaio 2012
Inizia il Dibattito sul Contratto Unico: Ecco il Disegno di Legge
[prima di effettuare una critica esaustiva sul Contratto Unico a breve in esame al Parlamento, è bene leggere il progetto per come è, ndr]
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1
(Contratto unico di ingresso)
1. E` istituito il contratto unico di ingresso (CUI), quale contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, a tutela progressiva della stabilita`.
2. Fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 5, il CUI puo` essere stipulato solo in sede di prima assunzione alle dipendenze del medesimo datore o committente.
3. Per quanto non previsto dalla presente legge, al CUI si applica la normativa vigente
in materia di rapporto di lavoro subordinato.
Art. 2.
(Articolazione temporale del contratto)
1. E` fatto divieto di apporre un termine al CUI.
2. Il CUI si articola in due fasi:
a) la fase di ingresso, di durata non superiore a tre anni;
b) la fase di stabilita`, a decorrere dalla conclusione della fase di ingresso.
3. Al CUI non si applica la disciplina in materia di periodo di prova.
Art. 3
(Durata della fase di ingresso)
1. La durata della fase di ingresso e` stabilita, entro il limite di cui all’articolo 2, comma 2, lettera a), dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di
lavoro comparativamente piu` rappresentative a livello nazionale ovvero, in mancanza, dalle parti contraenti.
2. Le parti possono in ogni momento pattuire, anche in costanza di rapporto, l’anticipazione dell’inizio della fase di stabilita`. In tal caso, il datore di lavoro e` tenuto a comunicare all’Istituto nazionale della previdenza
sociale (INPS) la data di effettiva decorrenza della fase di stabilita`.
Art. 4
(Disciplina del licenziamento individuale)
1. Durante la fase di ingresso, in caso di cessazione del rapporto conseguente al recesso del datore di lavoro per motivi diversi dal licenziamento disciplinare, al prestatore e` riconosciuta la tutela obbligatoria nella forma di un’indennita` di licenziamento a carico del datore di lavoro di ammontare pari a cinque giorni di retribuzione per ogni mese di prestazione lavorativa. Resta comunque ferma l’applicazione della normativa vigente in caso di licenziamento disciplinare e di licenziamento del quale il giudice ravvisi un motivo determinante discriminatorio ovvero un motivo futile totalmente estraneo alle esigenze proprie del processo produttivo.
2. Durante la fase di stabilita` si applica la normativa vigente in materia di licenziamento individuale.
Art. 5
(Nuova assunzione alle dipendenze del medesimo datore)
1. Il datore di lavoro che abbia interrotto un CUI durante la fase di ingresso puo` riassumere, entro i dodici mesi successivi all’interruzione del rapporto, il lavoratore alle sue dipendenze, con il medesimo CUI. In tal
caso, la durata della fase di ingresso e` ricalcolata scomputando il periodo di lavoro gia` svolto. Il medesimo periodo e` altresı` computato ai fini del calcolo dell’indennita` di cui all’articolo 4, comma 1.
Art. 6
(Salario minimo)
1. Con decreto del Presidente della Repubblica, adottato su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, e` stabilito il compenso orario minimo applicabile a tutti i rapporti aventi per oggetto una prestazione lavorativa, inclusi quelli con contenuto formativo, come individuato sulla base di apposita intesa con le parti sociali da stipulare presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore della presente legge. Decorso inutilmente tale termine, il decreto di cui al presente comma e` adottato su proposta del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, approvata dal Consiglio dei ministri, sentite
le organizzazioni sindacali comparativamente piu` rappresentative sul piano nazionale.
2. Il salario base dei lavoratori dipendenti non puo` essere determinato in misura tale che il reddito del lavoratore risulti inferiore a quello che risulterebbe dall’applicazione del compenso orario minimo di cui al
comma 1.
Art. 7
(Inquadramento professionale)
1. L’inquadramento professionale e il trattamento economico del lavoratore assunto con CUI sono quelli stabiliti dai contratti collettivi nazionali, applicabili per un lavoratore dipendente con analoga professionalita`.
Art. 8
(Modifica della disciplina del contratto a termine)
1. All’articolo l del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, il comma 1 e` sostituito dai seguenti:
«1. E` consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato:
a) quando la retribuzione lorda del prestatore superi l’importo di 25.000 euro su base annua con riferimento ad una prestazione a tempo pieno ovvero l’importo equivalente pro quota per prestazioni di durata
inferiore;
b) quando cio` sia richiesto dalla speciale natura dell’attivita` lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima, secondo quanto disciplinato dal decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525;
c) in caso di sostituzione di lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto di lavoro, purche´ nel contratto a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua
sostituzione;
d) nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi.
1-bis. In deroga al comma 1, e` possibile apporre un termine al contratto di lavoro
solo attraverso la contrattazione collettiva nazionale o aziendale stipulata dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente piu` rappresentative sul piano nazionale».
Art. 9
(Contribuzione per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria)
1. Per i lavoratori dipendenti a termine di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, come modificato dall’articolo 8 della presente legge, l’aliquota contributiva per l’assicurazione obbligatoria
contro la disoccupazione involontaria e` incrementata di un punto percentuale.
Art. 10
(Contribuzione obbligatoria ai fini pensionistici)
1. A decorrere dall’anno 2011, con riferimento ai lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, che non risultino assicurati presso altre forme obbligatorie, l’aliquota contributiva pensionistica e la relativa aliquota contributiva per il computo delle prestazioni pensionistiche sono incrementate annualmente in misura pari ad un punto percentuale, fino a convergenza con l’aliquota applicata ai lavoratori dipendenti iscritti all’assicurazione generale obbligatoria ed alle forme sostitutive ed esclusive della medesima, di cui all’articolo 1, comma 10, della medesima legge 8 agosto 1995, n. 335.
Art. 11
(Conversione del rapporto di lavoro parasubordinato in contratto unico di ingresso)
1. Ferma restando la disciplina di cui all’articolo 69 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il rapporto di lavoro autonomo continuativo, di lavoro a progetto e di associazione in partecipazione, con committenza pubblica o privata, dal quale il prestatore tragga piu` di due terzi del proprio reddito di lavoro complessivo, su base annuale, e` considerato a tutti gli effetti un contratto unico di ingresso, a far data dalla sua stipulazione, salvo che ricorra alternativamente uno dei seguenti requisiti:
a) la retribuzione annua lorda del prestatore superi i 30.000 euro; tale limite e` ridotto alla meta` per i primi due anni di iscrizione ad una gestione di previdenza obbligatoria;
b) il prestatore sia iscritto a un albo o un ordine professionale incompatibile con la posizione di dipendenza dall’azienda.
2. Nei casi di cui al comma 1, la durata della fase di ingresso e` pari, se prevista, alla durata del contratto originario, fermo restando il limite massimo di cui all’articolo 1, comma 2, lettera a).
3. Il criterio di qualificazione di cui al comma 1 si applica anche al rapporto di lavoro, ulteriore rispetto al rapporto sociale, tra socio lavoratore e cooperativa di lavoro.
4. Il requisito di cui al comma 1, inerente alla composizione del reddito di lavoro del prestatore, si presume sussistente in tutti i casi di collaborazione continuativa in cui il creditore della prestazione non possa documentare la diversa e autonoma fonte di reddito della quale il prestatore goda in misura superiore a un terzo del suo reddito di lavoro complessivo. La documentazione puo` consistere, alternativamente:
a) in una autodichiarazione del prestatore accompagnata dalla documentazione dei redditi diversi;
b) nella copia della dichiarazione dei redditi del prestatore relativa all’anno precedente.
5. L’insorgenza o la cessazione, in costanza del rapporto, del requisito inerente alla composizione del reddito di cui al comma 1 determinano, rispettivamente, l’insorgenza o la cessazione della condizione di dipendenza a far data dall’inizio dell’anno fiscale successivo.
Art. 12
(Rivalutazioni annuali e relazione al Parlamento)
1. Con decreti del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro il 31 dicembre di ogni anno, sono stabilite, sulla base dell’andamento delle retribuzioni dei contratti a tempo indeterminato del settore
privato, come stimato dall’ISTAT sulla base delle rilevazioni OROS, le rivalutazioni degli importi di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, come modificato dall’articolo 8 della presente legge, e di cui all’articolo 11, comma 1, lettera a), della presente legge.
2. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali riferisce al Parlamento circa gli effetti sull’andamento dell’occupazione e dei salari derivanti all’attuazione delle disposizioni della presente legge, stimati secondo metodologie rese accessibili alla valutazione indipendente. A tal fine, l’INPS rende accessibili, a titolo gratuito e in forma anonima, i microdati relativi alle carriere e alle retribuzioni dei lavoratori del settore privato iscritti alle rispettive gestioni obbligatorie.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1
(Contratto unico di ingresso)
1. E` istituito il contratto unico di ingresso (CUI), quale contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, a tutela progressiva della stabilita`.
2. Fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 5, il CUI puo` essere stipulato solo in sede di prima assunzione alle dipendenze del medesimo datore o committente.
3. Per quanto non previsto dalla presente legge, al CUI si applica la normativa vigente
in materia di rapporto di lavoro subordinato.
Art. 2.
(Articolazione temporale del contratto)
1. E` fatto divieto di apporre un termine al CUI.
2. Il CUI si articola in due fasi:
a) la fase di ingresso, di durata non superiore a tre anni;
b) la fase di stabilita`, a decorrere dalla conclusione della fase di ingresso.
3. Al CUI non si applica la disciplina in materia di periodo di prova.
Art. 3
(Durata della fase di ingresso)
1. La durata della fase di ingresso e` stabilita, entro il limite di cui all’articolo 2, comma 2, lettera a), dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di
lavoro comparativamente piu` rappresentative a livello nazionale ovvero, in mancanza, dalle parti contraenti.
2. Le parti possono in ogni momento pattuire, anche in costanza di rapporto, l’anticipazione dell’inizio della fase di stabilita`. In tal caso, il datore di lavoro e` tenuto a comunicare all’Istituto nazionale della previdenza
sociale (INPS) la data di effettiva decorrenza della fase di stabilita`.
Art. 4
(Disciplina del licenziamento individuale)
1. Durante la fase di ingresso, in caso di cessazione del rapporto conseguente al recesso del datore di lavoro per motivi diversi dal licenziamento disciplinare, al prestatore e` riconosciuta la tutela obbligatoria nella forma di un’indennita` di licenziamento a carico del datore di lavoro di ammontare pari a cinque giorni di retribuzione per ogni mese di prestazione lavorativa. Resta comunque ferma l’applicazione della normativa vigente in caso di licenziamento disciplinare e di licenziamento del quale il giudice ravvisi un motivo determinante discriminatorio ovvero un motivo futile totalmente estraneo alle esigenze proprie del processo produttivo.
2. Durante la fase di stabilita` si applica la normativa vigente in materia di licenziamento individuale.
Art. 5
(Nuova assunzione alle dipendenze del medesimo datore)
1. Il datore di lavoro che abbia interrotto un CUI durante la fase di ingresso puo` riassumere, entro i dodici mesi successivi all’interruzione del rapporto, il lavoratore alle sue dipendenze, con il medesimo CUI. In tal
caso, la durata della fase di ingresso e` ricalcolata scomputando il periodo di lavoro gia` svolto. Il medesimo periodo e` altresı` computato ai fini del calcolo dell’indennita` di cui all’articolo 4, comma 1.
Art. 6
(Salario minimo)
1. Con decreto del Presidente della Repubblica, adottato su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, e` stabilito il compenso orario minimo applicabile a tutti i rapporti aventi per oggetto una prestazione lavorativa, inclusi quelli con contenuto formativo, come individuato sulla base di apposita intesa con le parti sociali da stipulare presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore della presente legge. Decorso inutilmente tale termine, il decreto di cui al presente comma e` adottato su proposta del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, approvata dal Consiglio dei ministri, sentite
le organizzazioni sindacali comparativamente piu` rappresentative sul piano nazionale.
2. Il salario base dei lavoratori dipendenti non puo` essere determinato in misura tale che il reddito del lavoratore risulti inferiore a quello che risulterebbe dall’applicazione del compenso orario minimo di cui al
comma 1.
Art. 7
(Inquadramento professionale)
1. L’inquadramento professionale e il trattamento economico del lavoratore assunto con CUI sono quelli stabiliti dai contratti collettivi nazionali, applicabili per un lavoratore dipendente con analoga professionalita`.
Art. 8
(Modifica della disciplina del contratto a termine)
1. All’articolo l del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, il comma 1 e` sostituito dai seguenti:
«1. E` consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato:
a) quando la retribuzione lorda del prestatore superi l’importo di 25.000 euro su base annua con riferimento ad una prestazione a tempo pieno ovvero l’importo equivalente pro quota per prestazioni di durata
inferiore;
b) quando cio` sia richiesto dalla speciale natura dell’attivita` lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima, secondo quanto disciplinato dal decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525;
c) in caso di sostituzione di lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto di lavoro, purche´ nel contratto a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua
sostituzione;
d) nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi.
1-bis. In deroga al comma 1, e` possibile apporre un termine al contratto di lavoro
solo attraverso la contrattazione collettiva nazionale o aziendale stipulata dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente piu` rappresentative sul piano nazionale».
Art. 9
(Contribuzione per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria)
1. Per i lavoratori dipendenti a termine di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, come modificato dall’articolo 8 della presente legge, l’aliquota contributiva per l’assicurazione obbligatoria
contro la disoccupazione involontaria e` incrementata di un punto percentuale.
Art. 10
(Contribuzione obbligatoria ai fini pensionistici)
1. A decorrere dall’anno 2011, con riferimento ai lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, che non risultino assicurati presso altre forme obbligatorie, l’aliquota contributiva pensionistica e la relativa aliquota contributiva per il computo delle prestazioni pensionistiche sono incrementate annualmente in misura pari ad un punto percentuale, fino a convergenza con l’aliquota applicata ai lavoratori dipendenti iscritti all’assicurazione generale obbligatoria ed alle forme sostitutive ed esclusive della medesima, di cui all’articolo 1, comma 10, della medesima legge 8 agosto 1995, n. 335.
Art. 11
(Conversione del rapporto di lavoro parasubordinato in contratto unico di ingresso)
1. Ferma restando la disciplina di cui all’articolo 69 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il rapporto di lavoro autonomo continuativo, di lavoro a progetto e di associazione in partecipazione, con committenza pubblica o privata, dal quale il prestatore tragga piu` di due terzi del proprio reddito di lavoro complessivo, su base annuale, e` considerato a tutti gli effetti un contratto unico di ingresso, a far data dalla sua stipulazione, salvo che ricorra alternativamente uno dei seguenti requisiti:
a) la retribuzione annua lorda del prestatore superi i 30.000 euro; tale limite e` ridotto alla meta` per i primi due anni di iscrizione ad una gestione di previdenza obbligatoria;
b) il prestatore sia iscritto a un albo o un ordine professionale incompatibile con la posizione di dipendenza dall’azienda.
2. Nei casi di cui al comma 1, la durata della fase di ingresso e` pari, se prevista, alla durata del contratto originario, fermo restando il limite massimo di cui all’articolo 1, comma 2, lettera a).
3. Il criterio di qualificazione di cui al comma 1 si applica anche al rapporto di lavoro, ulteriore rispetto al rapporto sociale, tra socio lavoratore e cooperativa di lavoro.
4. Il requisito di cui al comma 1, inerente alla composizione del reddito di lavoro del prestatore, si presume sussistente in tutti i casi di collaborazione continuativa in cui il creditore della prestazione non possa documentare la diversa e autonoma fonte di reddito della quale il prestatore goda in misura superiore a un terzo del suo reddito di lavoro complessivo. La documentazione puo` consistere, alternativamente:
a) in una autodichiarazione del prestatore accompagnata dalla documentazione dei redditi diversi;
b) nella copia della dichiarazione dei redditi del prestatore relativa all’anno precedente.
5. L’insorgenza o la cessazione, in costanza del rapporto, del requisito inerente alla composizione del reddito di cui al comma 1 determinano, rispettivamente, l’insorgenza o la cessazione della condizione di dipendenza a far data dall’inizio dell’anno fiscale successivo.
Art. 12
(Rivalutazioni annuali e relazione al Parlamento)
1. Con decreti del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro il 31 dicembre di ogni anno, sono stabilite, sulla base dell’andamento delle retribuzioni dei contratti a tempo indeterminato del settore
privato, come stimato dall’ISTAT sulla base delle rilevazioni OROS, le rivalutazioni degli importi di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, come modificato dall’articolo 8 della presente legge, e di cui all’articolo 11, comma 1, lettera a), della presente legge.
2. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali riferisce al Parlamento circa gli effetti sull’andamento dell’occupazione e dei salari derivanti all’attuazione delle disposizioni della presente legge, stimati secondo metodologie rese accessibili alla valutazione indipendente. A tal fine, l’INPS rende accessibili, a titolo gratuito e in forma anonima, i microdati relativi alle carriere e alle retribuzioni dei lavoratori del settore privato iscritti alle rispettive gestioni obbligatorie.
- visualizzazione completa dell'introduzione degli autori, http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00459782.pdf
lunedì 23 gennaio 2012
E Ora Tocca al Lavoro
Per un paio di settimane abbiamo assistito alle gazzarre delle categorie sulle liberalizzazioni.
Come sappiamo, il tutto si è risolto in un nulla di fatto, in quanto le novità introdotte da Monti hanno semplicemente scalfito di striscio alcune corporazioni e, dietro risibili calcoli sull'aumento di Pil per conseguenza di questi provvedimenti, alcune di esse si sono trovate addirittura rafforzate; assicurazioni, banche e petrolieri per primi.
Adesso, perciò, il governo che "ha fatto cose che non erano state fatte in vent'anni" (parola di Corrado Passera) metterà mano alle regole del mondo del lavoro dipendente.
Siamo dunque al vero snodo della vita di questo esecutivo 'tecnico': nato con la benedizione di tutti i poteri forti, la sua missione era quella di far pagare al lavoro il prezzo della crisi del sistema e della permanenza nell'euro.
Si è cominciato qualche mese fa con i provvedimenti sulle pensioni. Innalzamenti indiscriminati di soglie previdenziali che impediranno di fatto a parte della popolazione di accedere al diritto di non lavorare durante l'anzianità.
Indirettamente si è continuato con l'introduzione della nuova imposta maggiorata sulla casa e l'aumento dell'Iva.
Però sono i contratti di lavoro la vera posta in palio.
Fingendo di interessarsi alla questione della disoccupazione giovanile, ministri ed esperti si confrontano su modelli contrattuali di facciata dal duplice scopo: a) eliminare ogni forma di attività sindacale/rendere chi lavora più debole (perché solo) rispetto al datore di lavoro; b) disarticolare l'idea di contratto di categoria.
Non c'è altro; il resto delle cose che sentiamo sono solo fumose chiacchiere.
Il problema che affligge tuttavia i lavoratori in questa fase non è tanto la proposta ultra-liberista del governo e degli amici industriali, quanto l'arretratezza culturale e la mancanza di legittimità sociale del quadro sindacale attuale. Cgil, Cisl e Uil sono delle macchine che da troppo tempo hanno smesso di funzionare per il bene esclusivo dei lavoratori.
Le eccezioni costituite da ottimi elementi sindacali sparsi qua e là per il paese non riescono ad intaccare la regola.
A livello centrale in particolare, il sindacato è l'apripista delle carriere politiche. Tutti i leader sindacali finiscono in parlamento, tutti.
La loro contiguità con quei partiti che da anni stanno demolendo le conquiste collettive degli anni '60 e '70 è storicamente palese: quando governa il centro-destra, Cisl e Uil ci si accordano; quando tocca al centro-sinistra, la Cgil non fa mancare il suo contributo di consenso (o quantomeno di non dissenso); se poi capita un governo tecnico, allora si accodano tutti e si fanno le riforme insieme, appassionatamente.
Anche stavolta sarà così: Monti, Fornero e Passera arriveranno al tavolo con una proposta già vagliata dai sindacati; si farà finta di discuterne e diventerà presto legge.
Per noi lavoratori le cose non miglioreranno; c'è da giurarci.
Quando mai un aumento del potere giuridico dei padroni si è trasformato per noi in un vantaggio?
Se a partire dai prossimi giorni mancherà la voce diretta, non mediata, dura del mondo del lavoro dipendente, ci troveremo a subire senza nessun sussulto lo schiaffo di quei padroni che hanno causato il disastro economico in cui ci troviamo e che finora non hanno pagato nulla.
E allora una parte della colpa sarà anche nostra.
Come sappiamo, il tutto si è risolto in un nulla di fatto, in quanto le novità introdotte da Monti hanno semplicemente scalfito di striscio alcune corporazioni e, dietro risibili calcoli sull'aumento di Pil per conseguenza di questi provvedimenti, alcune di esse si sono trovate addirittura rafforzate; assicurazioni, banche e petrolieri per primi.
Adesso, perciò, il governo che "ha fatto cose che non erano state fatte in vent'anni" (parola di Corrado Passera) metterà mano alle regole del mondo del lavoro dipendente.
Siamo dunque al vero snodo della vita di questo esecutivo 'tecnico': nato con la benedizione di tutti i poteri forti, la sua missione era quella di far pagare al lavoro il prezzo della crisi del sistema e della permanenza nell'euro.
Si è cominciato qualche mese fa con i provvedimenti sulle pensioni. Innalzamenti indiscriminati di soglie previdenziali che impediranno di fatto a parte della popolazione di accedere al diritto di non lavorare durante l'anzianità.
Indirettamente si è continuato con l'introduzione della nuova imposta maggiorata sulla casa e l'aumento dell'Iva.
Però sono i contratti di lavoro la vera posta in palio.
Fingendo di interessarsi alla questione della disoccupazione giovanile, ministri ed esperti si confrontano su modelli contrattuali di facciata dal duplice scopo: a) eliminare ogni forma di attività sindacale/rendere chi lavora più debole (perché solo) rispetto al datore di lavoro; b) disarticolare l'idea di contratto di categoria.
Non c'è altro; il resto delle cose che sentiamo sono solo fumose chiacchiere.
Il problema che affligge tuttavia i lavoratori in questa fase non è tanto la proposta ultra-liberista del governo e degli amici industriali, quanto l'arretratezza culturale e la mancanza di legittimità sociale del quadro sindacale attuale. Cgil, Cisl e Uil sono delle macchine che da troppo tempo hanno smesso di funzionare per il bene esclusivo dei lavoratori.
Le eccezioni costituite da ottimi elementi sindacali sparsi qua e là per il paese non riescono ad intaccare la regola.
A livello centrale in particolare, il sindacato è l'apripista delle carriere politiche. Tutti i leader sindacali finiscono in parlamento, tutti.
La loro contiguità con quei partiti che da anni stanno demolendo le conquiste collettive degli anni '60 e '70 è storicamente palese: quando governa il centro-destra, Cisl e Uil ci si accordano; quando tocca al centro-sinistra, la Cgil non fa mancare il suo contributo di consenso (o quantomeno di non dissenso); se poi capita un governo tecnico, allora si accodano tutti e si fanno le riforme insieme, appassionatamente.
Anche stavolta sarà così: Monti, Fornero e Passera arriveranno al tavolo con una proposta già vagliata dai sindacati; si farà finta di discuterne e diventerà presto legge.
Per noi lavoratori le cose non miglioreranno; c'è da giurarci.
Quando mai un aumento del potere giuridico dei padroni si è trasformato per noi in un vantaggio?
Se a partire dai prossimi giorni mancherà la voce diretta, non mediata, dura del mondo del lavoro dipendente, ci troveremo a subire senza nessun sussulto lo schiaffo di quei padroni che hanno causato il disastro economico in cui ci troviamo e che finora non hanno pagato nulla.
E allora una parte della colpa sarà anche nostra.
venerdì 13 gennaio 2012
Morte al Debito! W il Debito!
Cosa è un debito?
Un debito è tante cose. La parola in sé desta preoccupazione, in qualche modo ansia.
Però un debito in realtà non è altro che uno strumento, come un martello, né più né meno.
Se lo strumento si usa adeguatamente ci permette di eseguire determinate azioni con un vantaggio; altrimenti ci risulta inefficace o, addirittura, dannoso.
Quando costituiamo un debito, lo facciamo per acquistare/pagare un oggetto o un servizio facendoci aiutare da qualcuno, perché in qual momento non possiamo farlo da noi.
Colui col quale ci indebitiamo, ovviamente, fa fede sul fatto che in un certo lasso di tempo lo pagheremo. Se fosse sicuro che non potremo farlo in alcun modo, non ci concederebbe questa possibilità.
In più, cosa molto importante, il creditore si fa ripagare il tempo che ci mettiamo a restituirgli la somma in questione; lo fa con lo strumento dell'interesse.
Non si può non rilevare, comunque, che in assenza della dinamica credito/debito, le possibilità di azione (economica) di un soggetto sono fortemente limitate.
Ora, che sia una persona, un'impresa o uno stato, il meccanismo di base del debito rimane lo stesso.
Anche gli stati, dunque, chiedono prestiti a banche o altri soggetti: ma per pagare cosa?
Beni e servizi ad uso collettivo, da mettere a disposizione dei propri cittadini e di tutti coloro i quali allo stato medesimo si rapportano. Per acquistarli, gestirli e farli gestire, lì dove non ci sia una liquidità già disponibile, lo stato ricorre naturalmente al debito.
La garanzia che possono offrire gli stati è quella di poter restituire le somme prestate attraverso le proprie entrate, cioè le tasse o i proventi di attività, rendite ed investimenti suoi propri.
E come tutti gli altri debitori, anche lo stato pagherà ai suoi creditori un certo interesse sulla somma prestata.
Fin qui, credo, siamo tutti d'accordo.
Il problema del debito statale, tuttavia, è storico-politico, non economico.
Cioè a dire che è il frutto di scelte di sistema che si radicano nel tempo e condizionano la crescita e lo sviluppo di uno stato, ma in realtà di tutto il mondo.
Come detto, il debito aiuta a pagare la spesa che lo stato effettua.
Ma le possibilità di spesa sono infinite: si può spendere per costruire scuole e pagare gli insegnanti, ma anche per fare guerre e pagare i soldati; si può finanziare un progetto di riqualificazione di aree depresse, ma si può anche finanziare un progetto di disboscamento a tappeto.
Soprattutto - e questo ci dovrebbe interrogare in generale - si possono spendere soldi per creare condizioni di sviluppo, oppure no; oppure si può fare il contrario e sperperare risorse senza alcun ritorno.
Per comprendere a pieno la rilevanza del debito pubblico, si ricorre generalmente al rapporto di questo dato con quello del Prodotto Interno Lordo, il noto PIL, che è un grezzo indice di crescita basato sui fatturati.
Facendo riferimento alle statistiche più accreditate (e più interessate), quelle del Fondo Monetario Internazionale, ci accorgiamo che tale rapporto disegna una curiosa cartina geografica: come l'Italia, l'Islanda e la Grecia, hanno un debito superiore al Pil anche il Giappone, il Belgio, il Sudan; a prima vista ottime sembrano, invece, le condizioni di Russia, Bulgaria, Libia, Cile e Yemen, per fare qualche esempio.
La cosiddetta zona dell'euro oscilla tra il 70 ed il 100% di debito/Pil, comprese Francia e Germania; nel nord America, il paese messo meglio sembra il Messico, mentre Usa e Canada sono sulla media europea.
Confrontando questi dati con quelli sul reddito pro-capite, ci accorgiamo facilmente che esiste una correlazione piuttosto evidente tra ricchezza e debito o, meglio, tra stati che spendono gran parte delle proprie entrate presenti e future per investire su servizi ed infrastrutture (almeno di principio) e stati che non seguono questa prassi.
E' dunque proprio sulla spesa pubblica - composta anche dal debito pubblico - che si basa la forza economica dei paesi 'economicamente più avanzati'.
Torniamo, però, ad un concetto espresso prima: la leva del debito è un elemento soprattutto storico-politico della società moderna.
Gli stati ne hanno disposto soprattutto in tre direttrici: garantire il proprio mantenimento, investire su infrastrutture e formazione e gestire pacificamente o militarmente i rapporti di interessi con altri stati o gruppi di stati.
Quello che mi interessa focalizzare è che, da un lato, congenitamente, essendo uno strumento finanziario sottoposto alle leggi di mercato (le chiamiamo così per comodità), il debito può subire gli andamenti ciclici dell'economia ed anche le ondate speculative; e che, soprattutto, dall'altro esso si può trasformare in un boomerang nel momento in cui i governi lo usino senza prospettiva di ritorno.
La crisi strutturale del capitalismo che ci ha investiti tutti oltre tre anni fa (ma che ha le sue radici nel modello mondiale di crescita in vigore da metà degli anni settanta ad oggi), in Italia ha messo in luce tutti i misfatti di un sistema di potere compromesso senza alcuna esclusione nella gestione folle delle risorse pubbliche ed ha smascherato l'imbroglio del settimo paese più ricco del mondo.
Invece di costruire un'organizzazione statale efficiente, si è preferito pagare il consenso di larga parte della popolazione con la distribuzione più ampia ed interessata possibile di posti di lavoro per le clientele private o di partito; non si guardi alle statistiche degli impiegati pubblici di oggi, dopo che una valanga di partecipazioni statali sono state dismesse, portandoci sostanzialmente alle percentuali degli altri paesi: fin dagli anni '60 erano statali o assimilati ad essi gli impiegati dei trasporti, del comparto energetico ed idrico, delle telecomunicazioni, delle poste, di tutto il famigerato gruppo Iri, ecc.; milioni di persone distribuite secondo spartizioni tra partiti e/o tra sindacati.
Anche la concessione di trattamenti pensionistici per l'invalidità è stata orientata su simili scopi per decenni.
Solo con la poderosa macchina propagandistica de "gli anni di piombo" si è potuto nel tempo oscurare il dibattito sulla responsabilità dei governi democristiani degli anni '70 sull'ampliamento disinvolto del debito italiano proprio con queste modalità (posto di lavoro pubblico = voto), come arma di attenuazione del conflitto sociale.
Una nota a parte merita il rapporto dello stato con le aziende private, specie le più grandi (la Fiat, per fare un esempio poco casuale), finanziate senza criterio, con incentivi che hanno incontrato ostacoli solo da parte dei partner europei dopo l'avvio dell'euro.
Ma è il capitolo della formazione e delle infrastrutture il vero scandalo che sta alla base del default italiano.
Perché se è chiaro che tutto il mondo è coinvolto dalla crisi del capitalismo, di sicuro le residue, scarne speranze di riprendersi sono più alte per i paesi che negli anni hanno investito in questi ambiti*.
L'Italia, invece, ha completamente svilito il mondo dell'istruzione, tagliando orizzontalmente i bilanci del ministero per oltre un ventennio, senza mai riorganizzarlo funzionalmente; rendendo l'università uno spazio difficilmente accessibile (con tasse ormai alle stelle) e completamente sganciato dal mondo del lavoro; boicottando apertamente la ricerca scientifica.
Sul lato delle infrastrutture, poi, siamo davvero una barzelletta - e ci sarebbe da ridere, se non fosse che saremo noi a pagare le conseguenze di quello che è stato fatto -: non esiste un'opera pubblica rilevante (ma spesso anche di basso profilo) che non sia stata trasformata in un'emorragia di denaro pubblico. I costi comparati tra Italia ed altri stati europei per realizzazioni analoghe sono sconfortanti. Questo non avviene per mancanza di competenze tecniche, ma per una precisa volontà politica: le opere pubbliche sono specchi per le allodole che nascondono dietro la presunta utilità per la collettività un mare di corruzione e favoritismi per le lobby nostrane.
Qual è, dunque, la conclusione a cui si può giungere al termine di questo ampio excursus?
Che il debito pubblico è una risorsa e non un problema, forse soprattutto in periodi di crisi ma che, se uno stato non sa gestire le proprie spese presenti ed in prospettiva e se non investe sullo sviluppo, questo strumento diventa un pesantissimo fardello.
L'Italia è condannata al default, questo sia chiaro. Il motivo è che anche il nuovo governo ha preferito agire sulle voci di entrata sbagliate: comprimere le pensioni quando un paese non ha crescita occupazionale né un sistema di welfare emancipato è semplicemente un errore; ricorrere ad una violenta tassazione diretta ed indiretta in un momento di recessione economica pure è un errore; Monti li compie perché i partiti che lo sostengono non vogliono e non possono compromettere la vera posta in gioco, che è il controllo degli appalti pubblici e dei privilegi di categoria.
In fondo i creditori non chiedono che il debito sia azzerato (su questo sarebbe interessante riflettere a parte), ma che venga normalizzato.
Si chiede ai cittadini di questo paese, ed in particolare ad i lavoratori, di pagare di tasca propria il debito accumulato in anni di malgoverno, non solo si commette un abominio nei loro confronti, ma anche solo economicamente si gira intorno al problema, invece di dirimerne le cause e giungere ad una soluzione compatibile.
*L'unico altro metodo attuabile in una logica capitalista è l'abbattimento generale dei salari, con tutto ciò che socialmente ne può conseguire.
Un debito è tante cose. La parola in sé desta preoccupazione, in qualche modo ansia.
Però un debito in realtà non è altro che uno strumento, come un martello, né più né meno.
Se lo strumento si usa adeguatamente ci permette di eseguire determinate azioni con un vantaggio; altrimenti ci risulta inefficace o, addirittura, dannoso.
Quando costituiamo un debito, lo facciamo per acquistare/pagare un oggetto o un servizio facendoci aiutare da qualcuno, perché in qual momento non possiamo farlo da noi.
Colui col quale ci indebitiamo, ovviamente, fa fede sul fatto che in un certo lasso di tempo lo pagheremo. Se fosse sicuro che non potremo farlo in alcun modo, non ci concederebbe questa possibilità.
In più, cosa molto importante, il creditore si fa ripagare il tempo che ci mettiamo a restituirgli la somma in questione; lo fa con lo strumento dell'interesse.
Non si può non rilevare, comunque, che in assenza della dinamica credito/debito, le possibilità di azione (economica) di un soggetto sono fortemente limitate.
Ora, che sia una persona, un'impresa o uno stato, il meccanismo di base del debito rimane lo stesso.
Anche gli stati, dunque, chiedono prestiti a banche o altri soggetti: ma per pagare cosa?
Beni e servizi ad uso collettivo, da mettere a disposizione dei propri cittadini e di tutti coloro i quali allo stato medesimo si rapportano. Per acquistarli, gestirli e farli gestire, lì dove non ci sia una liquidità già disponibile, lo stato ricorre naturalmente al debito.
La garanzia che possono offrire gli stati è quella di poter restituire le somme prestate attraverso le proprie entrate, cioè le tasse o i proventi di attività, rendite ed investimenti suoi propri.
E come tutti gli altri debitori, anche lo stato pagherà ai suoi creditori un certo interesse sulla somma prestata.
Fin qui, credo, siamo tutti d'accordo.
Il problema del debito statale, tuttavia, è storico-politico, non economico.
Cioè a dire che è il frutto di scelte di sistema che si radicano nel tempo e condizionano la crescita e lo sviluppo di uno stato, ma in realtà di tutto il mondo.
Come detto, il debito aiuta a pagare la spesa che lo stato effettua.
Ma le possibilità di spesa sono infinite: si può spendere per costruire scuole e pagare gli insegnanti, ma anche per fare guerre e pagare i soldati; si può finanziare un progetto di riqualificazione di aree depresse, ma si può anche finanziare un progetto di disboscamento a tappeto.
Soprattutto - e questo ci dovrebbe interrogare in generale - si possono spendere soldi per creare condizioni di sviluppo, oppure no; oppure si può fare il contrario e sperperare risorse senza alcun ritorno.
Per comprendere a pieno la rilevanza del debito pubblico, si ricorre generalmente al rapporto di questo dato con quello del Prodotto Interno Lordo, il noto PIL, che è un grezzo indice di crescita basato sui fatturati.
Facendo riferimento alle statistiche più accreditate (e più interessate), quelle del Fondo Monetario Internazionale, ci accorgiamo che tale rapporto disegna una curiosa cartina geografica: come l'Italia, l'Islanda e la Grecia, hanno un debito superiore al Pil anche il Giappone, il Belgio, il Sudan; a prima vista ottime sembrano, invece, le condizioni di Russia, Bulgaria, Libia, Cile e Yemen, per fare qualche esempio.
La cosiddetta zona dell'euro oscilla tra il 70 ed il 100% di debito/Pil, comprese Francia e Germania; nel nord America, il paese messo meglio sembra il Messico, mentre Usa e Canada sono sulla media europea.
Confrontando questi dati con quelli sul reddito pro-capite, ci accorgiamo facilmente che esiste una correlazione piuttosto evidente tra ricchezza e debito o, meglio, tra stati che spendono gran parte delle proprie entrate presenti e future per investire su servizi ed infrastrutture (almeno di principio) e stati che non seguono questa prassi.
E' dunque proprio sulla spesa pubblica - composta anche dal debito pubblico - che si basa la forza economica dei paesi 'economicamente più avanzati'.
Torniamo, però, ad un concetto espresso prima: la leva del debito è un elemento soprattutto storico-politico della società moderna.
Gli stati ne hanno disposto soprattutto in tre direttrici: garantire il proprio mantenimento, investire su infrastrutture e formazione e gestire pacificamente o militarmente i rapporti di interessi con altri stati o gruppi di stati.
Quello che mi interessa focalizzare è che, da un lato, congenitamente, essendo uno strumento finanziario sottoposto alle leggi di mercato (le chiamiamo così per comodità), il debito può subire gli andamenti ciclici dell'economia ed anche le ondate speculative; e che, soprattutto, dall'altro esso si può trasformare in un boomerang nel momento in cui i governi lo usino senza prospettiva di ritorno.
La crisi strutturale del capitalismo che ci ha investiti tutti oltre tre anni fa (ma che ha le sue radici nel modello mondiale di crescita in vigore da metà degli anni settanta ad oggi), in Italia ha messo in luce tutti i misfatti di un sistema di potere compromesso senza alcuna esclusione nella gestione folle delle risorse pubbliche ed ha smascherato l'imbroglio del settimo paese più ricco del mondo.
Invece di costruire un'organizzazione statale efficiente, si è preferito pagare il consenso di larga parte della popolazione con la distribuzione più ampia ed interessata possibile di posti di lavoro per le clientele private o di partito; non si guardi alle statistiche degli impiegati pubblici di oggi, dopo che una valanga di partecipazioni statali sono state dismesse, portandoci sostanzialmente alle percentuali degli altri paesi: fin dagli anni '60 erano statali o assimilati ad essi gli impiegati dei trasporti, del comparto energetico ed idrico, delle telecomunicazioni, delle poste, di tutto il famigerato gruppo Iri, ecc.; milioni di persone distribuite secondo spartizioni tra partiti e/o tra sindacati.
Anche la concessione di trattamenti pensionistici per l'invalidità è stata orientata su simili scopi per decenni.
Solo con la poderosa macchina propagandistica de "gli anni di piombo" si è potuto nel tempo oscurare il dibattito sulla responsabilità dei governi democristiani degli anni '70 sull'ampliamento disinvolto del debito italiano proprio con queste modalità (posto di lavoro pubblico = voto), come arma di attenuazione del conflitto sociale.
Una nota a parte merita il rapporto dello stato con le aziende private, specie le più grandi (la Fiat, per fare un esempio poco casuale), finanziate senza criterio, con incentivi che hanno incontrato ostacoli solo da parte dei partner europei dopo l'avvio dell'euro.
Ma è il capitolo della formazione e delle infrastrutture il vero scandalo che sta alla base del default italiano.
Perché se è chiaro che tutto il mondo è coinvolto dalla crisi del capitalismo, di sicuro le residue, scarne speranze di riprendersi sono più alte per i paesi che negli anni hanno investito in questi ambiti*.
L'Italia, invece, ha completamente svilito il mondo dell'istruzione, tagliando orizzontalmente i bilanci del ministero per oltre un ventennio, senza mai riorganizzarlo funzionalmente; rendendo l'università uno spazio difficilmente accessibile (con tasse ormai alle stelle) e completamente sganciato dal mondo del lavoro; boicottando apertamente la ricerca scientifica.
Sul lato delle infrastrutture, poi, siamo davvero una barzelletta - e ci sarebbe da ridere, se non fosse che saremo noi a pagare le conseguenze di quello che è stato fatto -: non esiste un'opera pubblica rilevante (ma spesso anche di basso profilo) che non sia stata trasformata in un'emorragia di denaro pubblico. I costi comparati tra Italia ed altri stati europei per realizzazioni analoghe sono sconfortanti. Questo non avviene per mancanza di competenze tecniche, ma per una precisa volontà politica: le opere pubbliche sono specchi per le allodole che nascondono dietro la presunta utilità per la collettività un mare di corruzione e favoritismi per le lobby nostrane.
Qual è, dunque, la conclusione a cui si può giungere al termine di questo ampio excursus?
Che il debito pubblico è una risorsa e non un problema, forse soprattutto in periodi di crisi ma che, se uno stato non sa gestire le proprie spese presenti ed in prospettiva e se non investe sullo sviluppo, questo strumento diventa un pesantissimo fardello.
L'Italia è condannata al default, questo sia chiaro. Il motivo è che anche il nuovo governo ha preferito agire sulle voci di entrata sbagliate: comprimere le pensioni quando un paese non ha crescita occupazionale né un sistema di welfare emancipato è semplicemente un errore; ricorrere ad una violenta tassazione diretta ed indiretta in un momento di recessione economica pure è un errore; Monti li compie perché i partiti che lo sostengono non vogliono e non possono compromettere la vera posta in gioco, che è il controllo degli appalti pubblici e dei privilegi di categoria.
In fondo i creditori non chiedono che il debito sia azzerato (su questo sarebbe interessante riflettere a parte), ma che venga normalizzato.
Si chiede ai cittadini di questo paese, ed in particolare ad i lavoratori, di pagare di tasca propria il debito accumulato in anni di malgoverno, non solo si commette un abominio nei loro confronti, ma anche solo economicamente si gira intorno al problema, invece di dirimerne le cause e giungere ad una soluzione compatibile.
*L'unico altro metodo attuabile in una logica capitalista è l'abbattimento generale dei salari, con tutto ciò che socialmente ne può conseguire.
lunedì 9 gennaio 2012
La truffa del petrolio
L'11 luglio 2008 il petrolio, spinto da un'ondata speculativa fortissima, raggiunge la quotazione record di $147,50 al barile; a questo livello, il prezzo della benzina si aggirava intorno alla cifra, per noi, di 1,50 euro circa al litro.
Sembrava che tutta l'economia reale fosse in pericolo, poiché altro ogni prezzo avrebbe risentito di questo andamento. Tuttavia, una volta 'scoppiata la bolla', in pochi mesi il prezzo del greggio arrivò a dimezzarsi, attestandosi intorno ai $70-75. Anche quello dei derivati, come la benzina, si è abbassato; ma non certo della metà: €1,10 è stato il picco minimo.
Da allora ad oggi questa fondamentale risorsa energetica ha subito nuovamente un consistente rialzo, dovuto a diversi fattori, soprattutto politici; però il prezzo è lievitato a $101,50 circa (dicembre 2011), con una previsione di innalzamento a poco sopra i $110 per l'anno successivo. In compenso la benzina ormai oscilla tra €1,70 e €1,80. Andando a proporzioni, anche grossolanamente, la cosa non è congrua.
Anche a volersela prendere con lo stato, che incide sul prezzo finale per ormai oltre il 60%, tutti facciamo esperienza in prima persona di qualcosa di strano.
Esempio a): viene annunciato oggi il rialzo del prezzo del greggio di, chessò, $0,10 al barile; il giorno dopo, massimo due, il prezzo del distributore si è già innalzato, cosa che non è ragionevole perché sembra chiaro che un barile di petrolio estratto oggi non corrisponda alla benzina che troverò domani in distribuzione.
Esempio b): il governo annuncia l'aumento delle accise oggi e, anche qui, il giorno dopo il prezzo finale del prodotto è aumentato; ma di sicuro il giorno dopo l'aumento delle accise non è neanche entrato in vigore.
Non sono queste delle truffe?
Non c'è qualcuno che si sta arricchendo a dismisura, giocando sul fattore 'crisi'?
Il peso di questa gigantesca truffa è drammatico per i normali lavoratori e le loro famiglie: se, per ipotesi, una famiglia usasse 10 litri di benzina a settimana, ogni centesimo di aumento comporterebbe oltre 5 euro di aggravio sul bilancio all'anno; che sembra una cifra in fondo molto bassa ma, considerato
che il prezzo della benzina è aumentato mediamente di 12 centesimi solo nell'ultimo anno (dati Cgia Mestre), ciò significa che ogni 10 litri di prodotto si è lasciato allo stato ed ai petrolieri sessanta euro in più dell'anno precedente.
Il diesel ha avuto un rincaro medio di 11 centesimi nello stesso arco di tempo, mentre solo il Gpl (santo subito!) ha mantenuto un costo invariato.
Ora è chiaro che i comportamenti di massa - in questo caso la tendenza a muoversi spesso con l'automobile, insieme alla tendenza ad acquistare macchine a benzina - acuiscono le conseguenze delle speculazioni, o forse addirittura ne dirigono le prospettive di guadagno.
Tuttavia rimane il dato di un insostenibile ed ingiustificabile profitto in un momento estremamente critico, in cui già gravano sulla popolazione dei salariati e di chi comunque vive del proprio lavoro una serie di vessazioni sia fiscali che relative allo stato sociale.
Questo governo di salvatori della patria non solo ha fatto finta di ignorare questo dato, ma ha deciso di competere con gli speculatori privati in fatto di guadagno improprio, rendendo con la nuova accisa di fine anno una volta più chiaro cosa stia difendendo. Difende uno stato che possa proteggere i profitti dei soliti noti a costo di schiacciare la classe lavoratrice in una situazione di oggettiva povertà e mancanza di futuro.
E' un governo di persone capaci, è indubbio, ma di fare cosa?
Sembrava che tutta l'economia reale fosse in pericolo, poiché altro ogni prezzo avrebbe risentito di questo andamento. Tuttavia, una volta 'scoppiata la bolla', in pochi mesi il prezzo del greggio arrivò a dimezzarsi, attestandosi intorno ai $70-75. Anche quello dei derivati, come la benzina, si è abbassato; ma non certo della metà: €1,10 è stato il picco minimo.
Da allora ad oggi questa fondamentale risorsa energetica ha subito nuovamente un consistente rialzo, dovuto a diversi fattori, soprattutto politici; però il prezzo è lievitato a $101,50 circa (dicembre 2011), con una previsione di innalzamento a poco sopra i $110 per l'anno successivo. In compenso la benzina ormai oscilla tra €1,70 e €1,80. Andando a proporzioni, anche grossolanamente, la cosa non è congrua.
Anche a volersela prendere con lo stato, che incide sul prezzo finale per ormai oltre il 60%, tutti facciamo esperienza in prima persona di qualcosa di strano.
Esempio a): viene annunciato oggi il rialzo del prezzo del greggio di, chessò, $0,10 al barile; il giorno dopo, massimo due, il prezzo del distributore si è già innalzato, cosa che non è ragionevole perché sembra chiaro che un barile di petrolio estratto oggi non corrisponda alla benzina che troverò domani in distribuzione.
Esempio b): il governo annuncia l'aumento delle accise oggi e, anche qui, il giorno dopo il prezzo finale del prodotto è aumentato; ma di sicuro il giorno dopo l'aumento delle accise non è neanche entrato in vigore.
Non sono queste delle truffe?
Non c'è qualcuno che si sta arricchendo a dismisura, giocando sul fattore 'crisi'?
Il peso di questa gigantesca truffa è drammatico per i normali lavoratori e le loro famiglie: se, per ipotesi, una famiglia usasse 10 litri di benzina a settimana, ogni centesimo di aumento comporterebbe oltre 5 euro di aggravio sul bilancio all'anno; che sembra una cifra in fondo molto bassa ma, considerato
che il prezzo della benzina è aumentato mediamente di 12 centesimi solo nell'ultimo anno (dati Cgia Mestre), ciò significa che ogni 10 litri di prodotto si è lasciato allo stato ed ai petrolieri sessanta euro in più dell'anno precedente.
Il diesel ha avuto un rincaro medio di 11 centesimi nello stesso arco di tempo, mentre solo il Gpl (santo subito!) ha mantenuto un costo invariato.
Ora è chiaro che i comportamenti di massa - in questo caso la tendenza a muoversi spesso con l'automobile, insieme alla tendenza ad acquistare macchine a benzina - acuiscono le conseguenze delle speculazioni, o forse addirittura ne dirigono le prospettive di guadagno.
Tuttavia rimane il dato di un insostenibile ed ingiustificabile profitto in un momento estremamente critico, in cui già gravano sulla popolazione dei salariati e di chi comunque vive del proprio lavoro una serie di vessazioni sia fiscali che relative allo stato sociale.
Questo governo di salvatori della patria non solo ha fatto finta di ignorare questo dato, ma ha deciso di competere con gli speculatori privati in fatto di guadagno improprio, rendendo con la nuova accisa di fine anno una volta più chiaro cosa stia difendendo. Difende uno stato che possa proteggere i profitti dei soliti noti a costo di schiacciare la classe lavoratrice in una situazione di oggettiva povertà e mancanza di futuro.
E' un governo di persone capaci, è indubbio, ma di fare cosa?
- sulla crescita dei prezzi del 2008: http://www.borsainside.com/servizi/quotazione_petrolio.shtm
- sulla quotazione attuale: http://www.borsainside.com/servizi/quotazione_petrolio.shtm
- sulla composizione del prezzo (articolo basato su fonti del 2007) http://www.agienergia.it/Notizia.aspx?idd=62&id=35&ante=0
- tabella dei prezzi medi (da scaricare attraverso un link): http://www.cgiamestre.com/2011/09/andamento-prezzi-carburanti/
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