Cosa è un debito?
Un debito è tante cose. La parola in sé desta preoccupazione, in qualche modo ansia.
Però un debito in realtà non è altro che uno strumento, come un martello, né più né meno.
Se lo strumento si usa adeguatamente ci permette di eseguire determinate azioni con un vantaggio; altrimenti ci risulta inefficace o, addirittura, dannoso.
Quando costituiamo un debito, lo facciamo per acquistare/pagare un oggetto o un servizio facendoci aiutare da qualcuno, perché in qual momento non possiamo farlo da noi.
Colui col quale ci indebitiamo, ovviamente, fa fede sul fatto che in un certo lasso di tempo lo pagheremo. Se fosse sicuro che non potremo farlo in alcun modo, non ci concederebbe questa possibilità.
In più, cosa molto importante, il creditore si fa ripagare il tempo che ci mettiamo a restituirgli la somma in questione; lo fa con lo strumento dell'interesse.
Non si può non rilevare, comunque, che in assenza della dinamica credito/debito, le possibilità di azione (economica) di un soggetto sono fortemente limitate.
Ora, che sia una persona, un'impresa o uno stato, il meccanismo di base del debito rimane lo stesso.
Anche gli stati, dunque, chiedono prestiti a banche o altri soggetti: ma per pagare cosa?
Beni e servizi ad uso collettivo, da mettere a disposizione dei propri cittadini e di tutti coloro i quali allo stato medesimo si rapportano. Per acquistarli, gestirli e farli gestire, lì dove non ci sia una liquidità già disponibile, lo stato ricorre naturalmente al debito.
La garanzia che possono offrire gli stati è quella di poter restituire le somme prestate attraverso le proprie entrate, cioè le tasse o i proventi di attività, rendite ed investimenti suoi propri.
E come tutti gli altri debitori, anche lo stato pagherà ai suoi creditori un certo interesse sulla somma prestata.
Fin qui, credo, siamo tutti d'accordo.
Il problema del debito statale, tuttavia, è storico-politico, non economico.
Cioè a dire che è il frutto di scelte di sistema che si radicano nel tempo e condizionano la crescita e lo sviluppo di uno stato, ma in realtà di tutto il mondo.
Come detto, il debito aiuta a pagare la spesa che lo stato effettua.
Ma le possibilità di spesa sono infinite: si può spendere per costruire scuole e pagare gli insegnanti, ma anche per fare guerre e pagare i soldati; si può finanziare un progetto di riqualificazione di aree depresse, ma si può anche finanziare un progetto di disboscamento a tappeto.
Soprattutto - e questo ci dovrebbe interrogare in generale - si possono spendere soldi per creare condizioni di sviluppo, oppure no; oppure si può fare il contrario e sperperare risorse senza alcun ritorno.
Per comprendere a pieno la rilevanza del debito pubblico, si ricorre generalmente al rapporto di questo dato con quello del Prodotto Interno Lordo, il noto PIL, che è un grezzo indice di crescita basato sui fatturati.
Facendo riferimento alle statistiche più accreditate (e più interessate), quelle del Fondo Monetario Internazionale, ci accorgiamo che tale rapporto disegna una curiosa cartina geografica: come l'Italia, l'Islanda e la Grecia, hanno un debito superiore al Pil anche il Giappone, il Belgio, il Sudan; a prima vista ottime sembrano, invece, le condizioni di Russia, Bulgaria, Libia, Cile e Yemen, per fare qualche esempio.
La cosiddetta zona dell'euro oscilla tra il 70 ed il 100% di debito/Pil, comprese Francia e Germania; nel nord America, il paese messo meglio sembra il Messico, mentre Usa e Canada sono sulla media europea.
Confrontando questi dati con quelli sul reddito pro-capite, ci accorgiamo facilmente che esiste una correlazione piuttosto evidente tra ricchezza e debito o, meglio, tra stati che spendono gran parte delle proprie entrate presenti e future per investire su servizi ed infrastrutture (almeno di principio) e stati che non seguono questa prassi.
E' dunque proprio sulla spesa pubblica - composta anche dal debito pubblico - che si basa la forza economica dei paesi 'economicamente più avanzati'.
Torniamo, però, ad un concetto espresso prima: la leva del debito è un elemento soprattutto storico-politico della società moderna.
Gli stati ne hanno disposto soprattutto in tre direttrici: garantire il proprio mantenimento, investire su infrastrutture e formazione e gestire pacificamente o militarmente i rapporti di interessi con altri stati o gruppi di stati.
Quello che mi interessa focalizzare è che, da un lato, congenitamente, essendo uno strumento finanziario sottoposto alle leggi di mercato (le chiamiamo così per comodità), il debito può subire gli andamenti ciclici dell'economia ed anche le ondate speculative; e che, soprattutto, dall'altro esso si può trasformare in un boomerang nel momento in cui i governi lo usino senza prospettiva di ritorno.
La crisi strutturale del capitalismo che ci ha investiti tutti oltre tre anni fa (ma che ha le sue radici nel modello mondiale di crescita in vigore da metà degli anni settanta ad oggi), in Italia ha messo in luce tutti i misfatti di un sistema di potere compromesso senza alcuna esclusione nella gestione folle delle risorse pubbliche ed ha smascherato l'imbroglio del settimo paese più ricco del mondo.
Invece di costruire un'organizzazione statale efficiente, si è preferito pagare il consenso di larga parte della popolazione con la distribuzione più ampia ed interessata possibile di posti di lavoro per le clientele private o di partito; non si guardi alle statistiche degli impiegati pubblici di oggi, dopo che una valanga di partecipazioni statali sono state dismesse, portandoci sostanzialmente alle percentuali degli altri paesi: fin dagli anni '60 erano statali o assimilati ad essi gli impiegati dei trasporti, del comparto energetico ed idrico, delle telecomunicazioni, delle poste, di tutto il famigerato gruppo Iri, ecc.; milioni di persone distribuite secondo spartizioni tra partiti e/o tra sindacati.
Anche la concessione di trattamenti pensionistici per l'invalidità è stata orientata su simili scopi per decenni.
Solo con la poderosa macchina propagandistica de "gli anni di piombo" si è potuto nel tempo oscurare il dibattito sulla responsabilità dei governi democristiani degli anni '70 sull'ampliamento disinvolto del debito italiano proprio con queste modalità (posto di lavoro pubblico = voto), come arma di attenuazione del conflitto sociale.
Una nota a parte merita il rapporto dello stato con le aziende private, specie le più grandi (la Fiat, per fare un esempio poco casuale), finanziate senza criterio, con incentivi che hanno incontrato ostacoli solo da parte dei partner europei dopo l'avvio dell'euro.
Ma è il capitolo della formazione e delle infrastrutture il vero scandalo che sta alla base del default italiano.
Perché se è chiaro che tutto il mondo è coinvolto dalla crisi del capitalismo, di sicuro le residue, scarne speranze di riprendersi sono più alte per i paesi che negli anni hanno investito in questi ambiti*.
L'Italia, invece, ha completamente svilito il mondo dell'istruzione, tagliando orizzontalmente i bilanci del ministero per oltre un ventennio, senza mai riorganizzarlo funzionalmente; rendendo l'università uno spazio difficilmente accessibile (con tasse ormai alle stelle) e completamente sganciato dal mondo del lavoro; boicottando apertamente la ricerca scientifica.
Sul lato delle infrastrutture, poi, siamo davvero una barzelletta - e ci sarebbe da ridere, se non fosse che saremo noi a pagare le conseguenze di quello che è stato fatto -: non esiste un'opera pubblica rilevante (ma spesso anche di basso profilo) che non sia stata trasformata in un'emorragia di denaro pubblico. I costi comparati tra Italia ed altri stati europei per realizzazioni analoghe sono sconfortanti. Questo non avviene per mancanza di competenze tecniche, ma per una precisa volontà politica: le opere pubbliche sono specchi per le allodole che nascondono dietro la presunta utilità per la collettività un mare di corruzione e favoritismi per le lobby nostrane.
Qual è, dunque, la conclusione a cui si può giungere al termine di questo ampio excursus?
Che il debito pubblico è una risorsa e non un problema, forse soprattutto in periodi di crisi ma che, se uno stato non sa gestire le proprie spese presenti ed in prospettiva e se non investe sullo sviluppo, questo strumento diventa un pesantissimo fardello.
L'Italia è condannata al default, questo sia chiaro. Il motivo è che anche il nuovo governo ha preferito agire sulle voci di entrata sbagliate: comprimere le pensioni quando un paese non ha crescita occupazionale né un sistema di welfare emancipato è semplicemente un errore; ricorrere ad una violenta tassazione diretta ed indiretta in un momento di recessione economica pure è un errore; Monti li compie perché i partiti che lo sostengono non vogliono e non possono compromettere la vera posta in gioco, che è il controllo degli appalti pubblici e dei privilegi di categoria.
In fondo i creditori non chiedono che il debito sia azzerato (su questo sarebbe interessante riflettere a parte), ma che venga normalizzato.
Si chiede ai cittadini di questo paese, ed in particolare ad i lavoratori, di pagare di tasca propria il debito accumulato in anni di malgoverno, non solo si commette un abominio nei loro confronti, ma anche solo economicamente si gira intorno al problema, invece di dirimerne le cause e giungere ad una soluzione compatibile.
*L'unico altro metodo attuabile in una logica capitalista è l'abbattimento generale dei salari, con tutto ciò che socialmente ne può conseguire.
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