Se ne parla da quasi due decenni, ed in particolare con maggiore intensità dall'autunno 2008, quando crollò la Lehman Brothers trascinandosi dietro l'intera finanza globale. È la crisi. Che però nel resto del mondo è iniziata già da un paio d'anni e che, con modalità tutte nostrane, approda in Italia nell'ultimo trimestre.
È già capitato in questo blog di parlare di questo argomento, per cui faccio solo una battuta per riassumere ciò che penso. E cioè che la crisi non è il momento in cui i parametri economici principali di un paese volgono verso il segno negativo. Quella è recessione. La crisi è l'insieme dei movimenti che vengono compiuti all'interno di un contesto economico affinché la recessione venga fermata e si possa così provare a tornare in regime positivo.
Nei paesi più industrializzati questo percorso ha avuto uno svolgimento che si può definire più classico, con un progressivo e significativo rimbalzo (negli Usa siamo ormai ad una crescita del Pil che ha varcato la soglia del 3% annuo, ma anche la Germania e persino la Spagna hanno ripreso a macinare). In Italia, dove non esiste un vero e proprio capitalismo, ma solo un coacervo di interessi garantiti – finché è possibile – da un sistema paramafioso, i danni della recessione sono stati molto più ingenti ed hanno portato a dei dati sulla disoccupazione che delineano un disastro economico epocale.
Eppure qualcosa si è mosso.
Non è improbabile che, come è spesso accaduto in passato, abbia influito un mutato clima intenazionale. Comunque sta di fatto che anche qui da noi il prodotto interno abbia arrestato la sua lunghissima tendenza negativa, con un +0,1% su base trimestrale.
Da diverse parti si è gridato inopinatamente alla ripresa, ma tutti gli operatori e gli osservatori non potranno che sorridere per la drammatica sciocchezza.
Il significato vero di questo microscopico cambio di rotta è che, in un modo o nell'altro, mentre l'economia reale sta ancora inchiodata al suo stallo, c'è qualcuno che ha ricominciato a mettere in circolo del denaro, magari abilmente tenuto nascosto durante questo lungo letargo. E questa gente sta dando anche tutti i segnali alla classe dirigente perché torni a battere il sentiero su cui l'economia italiana dovrà muoversi.
Badiamo bene, che non sono segnali buoni, per una serie di ragioni.
Primo: oggi chi ha ancora denaro (gli stessi di prima) ha aumentato il suo potere d'acquisto, e manifesta la propria volontà di speculare il più possibile sulle macerie. Ergo, si attende come squali che lo Stato proceda ad una nuova ondata di dismissioni e privatizzazioni per accaparrarsi tutto a prezzi stracciati.
Secondo: i pochi che investiranno nelle imprese, lo faranno con una forza contrattuale simile per entità solo a quella del secondo dopoguerra, quando non c'era niente neanche da mangiare e si lavorava per qualsiasi cifra e a qualsiasi condizione. Oggi è di nuovo così. Ed infatti si prospetta, anche qui, una nuova raffica di leggi e decreti che, dietro la necessità impellente di trovare lavoro ad una massa enorme di persone ridotte sul lastrico (se non proprio già cadute in uno sprofondo esistenziale), tenderà ad annientare la contrattazione collettiva per abbassare al massimo il costo del lavoro. E sarà il traguardo finale di una guerra ai lavoratori che va avanti dall'accordo sulla scala mobile dei primi anni '80, passando per i Co.co.co. del pacchetto Treu, gli iperprecarizzati della legge Biagi e gli esodati, i bamboccioni e i choosy della riforma Fornero.
La crisi italiana comincia davvero adesso e si prospetta per il momento come l'attacco definitivo degli squali della borghesia-non capitalista ai residui della nostra civiltà del lavoro.
Di fronte a questo, c'è al momento il deserto dei Tartari. Non si capisce se ed eventualmente come la massa dei già-sconfitti reagirà.
I sindacati si sono autoconfinati dal conflitto sociale dal 2003, circa (epoca a cui risale l'ultima grande mobilitazione della Cgil sulla riforma dell'articolo 18).
La sinistra di classe non esiste. O per lo meno, visto com'è ridotta, sarebbe più dignitoso che non esistesse.
Di vertenze anche molto complesse e combattute è invece pieno il paese, da nord a sud.
Il problema è che sono vertenze che nella quasi totalità dei casi si riducono a mera difesa dell'esistente, forse perché ancora non si riesce a comprendere la gravità della posta in gioco.
Manca una elaborazione progressista, dentro il campo dei lavoratori, del ruolo di un'intera classe, che è stata disintegrata in una miriade di casi umani singoli. E un'operazione culturale del genere non si mette certamente in piedi da un momento all'altro.
Un punto di partenza possibile però c'è: il rifiuto pregiudiziale del percorso politico intrapreso dai principali partiti del paese ed in particolare dal Partito Democratico (scosso da un'accelerazione delle dinamiche interne che ha portato allo scoperto tutte le contraddizioni della sua dirigenza, sia a livello locale che nazionale).
Bisognerebbe fregarsene completamente del toto-ministri di Renzi, dei suoi pseudo scontri con altri loschi figuri della politica nostrana, e concentrarsi completamente sulle politiche del lavoro e degli ammortizzatori sociali che questa sconclusionata compagine di banderuole sta per propinarci.
Bisognerebbe ricominciare a socializzare lotte e vertenze smettendola di spaccare il capello in quattro, e sforzandosi invece si fare sintesi, perché la crisi che è in atto ora non chiuda completamente la strada alle nuove generazioni e non spazzi via quel poco che resta in piedi della nostra.
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