Le riflessioni che ogni pagina di questo libro mi hanno indotto sono tante, forse troppe in una volta sola.
Innanzitutto quelle "storiche" o meglio "storiografiche", per il fatto che avevo un'esigenza di conforto intellettuale per quello che ho sempre pensato sulla storia della sinistra (e del centro sinistra) di questo paese.
Poi ci sono le ragioni pratiche, i parallelismi che non si possono evitare col presente, i nodi irrisolti non solo a livello politico ma soprattutto sociale.
Il sottotitolo del saggio - Le avventure dell'illusione rivoluzionaria - mi ha messo subito in pace con l'autore, di cultura socialista, addirittura craxiano. Ho sempre trovato nei socialisti una capacità-onestà di analisi pari solo alla loro incapacità storica di produrre alcunché di buono in termini pratici per la società in cui viviamo.
Veniamo ai punti.
La questione centrale che viene analizzata nello scritto è quella del ruolo del Pci.
Inserito in un contesto internazionale di cui non si sentiva veramente protagonista, ma solo esecutore subordinato (all'Urss, ovviamente), con Togliatti prima e con Berlinguer dopo il partito ufficiale della classe lavoratrice italiana ha inaugurato una prassi che ha avuto molta fortuna a sinistra: subordinare le rivendicazioni del presente di chi lo votava in vista della partecipazione futura al governo del paese.
Arrivare a governare era più importante di tutto il resto.
Nel dopoguerra disarmarono i partigiani per stare al governo con De Gasperi. Negli anni '50 aiutarono la Fiat di Valletta e gli imprenditori in generale a far ricadere sui lavoratori e sugli emigrati dal sud, con la "retorica del sacrificio", tutto il peso di una crescita economica pagata con salari da fame e condizioni di vita al limite della sopravvivenza. Col boom economico scoppiarono le contraddizioni di questo modello e quando a Torino nel '62 avvennero gli scontri in piazza Statuto, l'Unità disse che era una provocazione, chiedendosi chi pagava quei manifestanti. Per tutto il decennio il Pci continuò ad imporre al sindacato una linea dirigista e accentratrice che lo fece scavalcare persino dalla Cisl. Il '68 non fu proprio capito, ma neanche l'autunno caldo del '69. E quando le lotte iniziarono a pagare davvero e le condizioni di vita dei lavoratori migliorarono sensibilmente, Berlinguer benedisse la politica di austerità perché non bisognava scoraggiare gli imprenditori ad investire.
Tutto questo per poter arrivare al sogno proibito, tornare al governo con la Democrazia Cristiana - che niente aveva più a che vedere col partito di De Gasperi, ma era diventato il coacervo della corruzione dell'intero sistema - attraverso il famigerato compromesso storico.
Leggendo le pagine di Pini che descrive questo percorso sempre più tortuoso e fine a se stesso, non riesco a togliermi dalla mente gli ultimi vent'anni di centrosinistra, da Prodi a Renzi, passando per D'Alema. Non riesco a non pensare a quante volte parole come 'sacrificio', 'compromesso', 'concertazione', 'terza via', 'voto utile', ecc. abbiano distorto il dibattito politico, evitando di considerare quali disastri sociali esse si portavano dietro. È in nome di quelle parole, è per far governare i nipotini di Togliatti e Berlinguer, che un'intera generazione di italiani è precarizzata, che schiere di migranti quando non muoiono in mare finiscono in delle sottospecie di galere gestite da privati, che i servizi essenziali alle persone (formazione, sanità, trasporti e previdenza) sono stati disarticolati in maniera irreparabile, che l'Italia ha seguito la Nato in una serie folle di guerre che non finiscono mai.
Ci raccontano che è colpa di Berlusconi, ma in realtà la maggiore responsabilità è la loro, che hanno fatto passare di tutto pur di stare seduti su certe poltrone.
L'altro troncone di analisi riguarda ciò che è stato a sinistra del Pci.
Proprio a causa delle scelte compiute da Botteghe Oscure, sono nate una quantità di esperienze alternative, accomunate dall'esigenza primaria di perseguire quel cambiamento epocale - la rivoluzione - a cui il partito comunista aveva di fatto abdicato.
Un lungo cammino che parte dalla rivolta contro il governo Tambroni nell'estate del '60 e, passando per il biennio '68-'69, genera la biforcazione fondamentale tra gli extraparlamentari a metà degli anni '70: autonomia da una parte e partito armato dall'altra.
Ciò che rimane davvero interessante è proprio quest'ultima fase, che non si limita temporalmente al sequestro Moro come molti vorrebbero (ed in parte anche l'autore del libro), ma che ri-produce i suoi effetti fino a tutti gli anni '80 e forse oltre, arrivando fino a noi.
Secondo Pini, la divergenza era centrata sulla visione del lavoro: tradizionale e simile a quella del Pci per le Br che si riferivano all'operaio-massa, quello della catena di montaggio "con le dita callose"; al contrario l'operaio sociale di Negri, che ricomprendeva anche chi non lavorava, soprattutto se non voleva lavorare ai tempi e alle condizioni dettate dal padrone.
Eppure a mio avviso si capisce che il confronto/scontro ha a che vedere soprattutto con l'azione politica ed il rapporto col potere, l'istituzione, di riflesso proprio alla linea del Pci.
Nel libro si parla di come le Br abbiano voluto riportare il comunismo in un contesto di scontro frontale con la borghesia, fino a identificare il sistema da combattere con la classe dirigente intera, facente capo allo Stato. Esse accusavano il Pci di aver venduto la classe operaia ai borghesi per entrare al governo (ed abbiamo visto che in effetti fu sostanzialmente così) e ricorsero al terrore per tentare di scardinare il compromesso storico e con esso lo Stato che opprimeva le masse. In realtà quel compromesso era destinato a perire di suo - come sempre accade a certi compromessi troppo espliciti in Italia - eppure lo Stato continuò a sopravvivere, rafforzandosi perfino, proprio intorno alla lotta al terrorismo.
L'Autonomia invece puntava alla legittimazione, se così si può dire, del contropotere delle classi subalterne. Più simile per impostazione al sindacato che al partito, essa si batteva principalmente per il salario politico, cioè per un reddito generalizzato indipendente dalle congiunture economiche. Per raggiungere i suoi obiettivi non tese a creare un'organizzazione ristretta che dirigesse il processo rivoluzionario come le Br, ma si orientò alla costruzione di una rivolta generale, un'insurrezione, non priva tuttavia di connotati armati e violenti.
Ora, cosa c'è di attuale in questa vecchia diatriba, cosa rimane.
Premetto da parte mia che tutti gli attori finora elencati finora - Pci e Dc, Autonomia e Bb - hanno mantenuto comunemente una visione antiquata, o come minimo non innovativa, dell'economia e della società. Nessuno di essi ha predicato mai a favore dell'innovazione, come se in fondo l'Italia non potesse mai ambire ad essere un luogo di sperimentazione attivo, e non passivo-repressivo (tra l'altro ognuno di essi pretende di aver apportato al paese un qualche beneficio, senza mai chiarire la contropartita).
Detto ciò, da un lato si evidenzia il fatto che, espunto di principio il ricorso alle scontro armato di tipo militaresco (ma non certo della pratica del conflitto in sé), la classe dirigente del paese geneticamente è la stessa, porta con sé corruzione e contraddizioni in misura se possibile maggiore a quella di allora e la necessità di essere rimossa per il bene soprattutto dei soggetti sociali più deboli, che continuano a subirne la mediocrità.
Dall'altro i temi dell'autoriduzione e complessivamente del reddito rimangono patrimonio non solo dei movimenti ma di tutta una popolazione in difficoltà. Fare politica oggi senza porre questi quesiti è un puro esercizio di stile.
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