Con una certa regolarità prendono quota in questo sciagurato paese le pubbliche solfe sul conflitto di interessi. Una patologia che la società borghese ha l'illusione di risolvere con una serie di normative, ma che a ben vedere risulta un elemento essenziale del dominio capitalista.
L'esempio che gli italiani hanno quotidianamente di fronte, da qualcosa come vent'anni, è quello di Berlusconi, un imprenditore di grande successo (ottenuto non sempre con limpidezza) al quale viene rinfacciato di stare in politica con lo scopo principale di difendere o promuovere i propri interessi individuali a scapito dei suoi concorrenti e del bene pubblico.
Da sinistra si invoca una legge ad hoc che impedisca a lui e ad eventuali suoi epigoni di potersi candidare in parlamento ma soprattutto di ricoprire incarichi di governo. Posto che, come noto, la sinistra istituzionale non è mai stata in grado di produrre questa legge negli anni in cui ha disposto di una autonoma maggioranza, è veramente il conflitto di interessi una materia su cui si possa sperare di pervenire ad un risultato soddisfacente?
A mio avviso la risposta è no, e per almeno due orini di motivi.
Il primo concerne una specifica nostrana. Quando si parla di interessi che si possono avvantaggiare a danno di altri, bisogna vedere se gli altri sono così limpidi. In altre parole, non è Berlusconi l'unico ad essersi avvantaggiato della propria posizione. Quanti dirigenti di altri partiti vengono designati a far parte di consigli di amministrazione di società di entità nazionale o addirittura multinazionale? I casi più deleteri si registrano nell'ambito bancario ed assicurativo. Non c'è un vertice aziendale che sia indipendente dalla politica e non sia stato soggetto finora alla lottizzazione. Appena sotto stanno l'editoria (fate caso al giro di poltrone che si scatena stagionalmente e colloca/ricolloca consiglieri e direttori di testata) e le partecipate statali o locali (da FinMeccanica all'ultima azienda di raccolta rifiuti).
Il confine tra management e dirigenza partitica in Italia è più che labile. Quasi non esiste.
C'è però un secondo motivo, che non scagiona i malaffaristi di casa nostra ma certamente li inserisce in un contesto globale. Non bisogna infatti dimenticare che lo Stato moderno è funzionale al sistema capitalista, poiché nel suo complesso serve a garantire la proprietà ed il profitto che ne deriva.
È così da noi, ma anche negli Stati Uniti ed in Botswana. Nato in Europa, il modello è stato replicato ed adattato ovunque, alla bisogna e in mezzo ad una miriade di contraddizioni.
La geopolitica del capitale, dunque, a seconda del territorio genera le specificità di difesa dei capisaldi di questo modo di produzione: impresa e mercato.
Chi permette ad Obama di essere eletto per due mandati e con una spesa promozionale inimmaginabile? Chi sono i suoi veri grandi elettori? In Usa il sistema lobbistico è abbastanza accettato e tutti sanno che dietro un certo candidato ci sono determinati gruppi di pressione. Pensiamo che, quando dovrà decidere in materie che incidono sulla sorte dei settori di riferimento, il presidente americano non sarà condizionato? E per il presidente del Botswana le cose andranno meglio?
Quello che in genere viene chiamato conflitto di interessi altro non è che l'imbarazzo per il disvelamento di una vecchia ipocrisia. E la ressa che siamo abituati a sentire qui da noi serve in fondo solo a ricomporre tale velo. Certo, non è edificante per la pseudo classe dirigente italiana farsi cogliere con le mani nel sacco senza un minimo di stile, ma vale la pena che gli si dia manforte?
Lenin commentava con scherno e ironia i litigi tra giornali borghesi e francamente oggi farebbe altrettanto ridere questo scannatoio inutile tra berluscones e centrosinistri, se non fosse per la tragedia in cui stanno entrambi - e finalmente, appassionatamente insieme - conducendo un'intera generazione.
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