Come lo stesso Sofri dice, è chiaro che non si può dare legittimità giuridica a tutte le forme di dissenso del paese, perché questo comporterebbe anche la possibilità che tali consultazioni si possano estendere a materie molto più delicate, come la secessione di alcuni territori.
Il problema tuttavia, se viene posto sul piano dell'autodeterminazione, parte da una china completamente errata, soprattutto per quello che riguarda la lotta che i comitati No-Tav stanno conducendo da anni.
Essi non chiedono affatto di rimanere isolati dal resto del paese, e men che meno chiedono che non arrivino investimenti ed infrastrutture.
Questo elemento, si badi bene, è esattamente quello che determina la qualità della battaglia No-Tav e di moltissime altre battaglie per la difesa del territorio: un elemento di progresso.
Chiedere che un'opera faraonica non venga messa in piedi per una miriade di ragioni (spesso assolutamente inconfutabili), non equivale affatto - come vorrebbero i notabili dei principali partiti, con secondi fini che a tutti sono noti - a rifiutare investimenti.
In un investimento occorre sempre valutare quali siano i benefici ma a fronte di quali sacrifici.
E' stato davvero fatto ciò dal Parlamento italiano, quando nel silenzio generale votò la ratifica del trattato con la Francia per la linea Lione-Torino?
In questo paese alla rovescia, le decisioni vengono prese sulla base di quanto possono far guadagnare le lobby; le camere non fanno altro che aderire o rigettare a seconda di quanto le lobby del settore specifico siano forti. O ci vogliamo raccontare la favola di una democrazia parlamentare seria e compiuta?
Come ho già avuto modo di dire, il problema delle opere pubbliche è generale e non si limita a situazioni critiche, come la Val di Susa (ma anche come l'hinterland di Napoli per le discariche, Vicenza per la base militare, ecc.), nel senso che è proprio il concepimento di ogni opera ad essere guasto.
Ogni opera, senza quasi esclusione.
Il problema, dunque, è che la pubblica amministrazione, a livelli centrali come anche locali, non adotta criteri di vantaggio per i propri interventi: tali criteri dovrebbero andare dal risparmio puramente economico alla valutazione di prospettiva sull'opera.
Tutti facciamo esperienza, invece, di cantieri che valicano e anzi doppiano le durate prestabilite di consegna dei manufatti, con un aumento di costi per la collettività che è una delle principali cause reali dell'espansione del debito pubblico.
E quelli che con maggiore interesse seguono le vicende politiche sanno che di molte opere conta più il taglio del nastro che non la loro effettiva realizzazione.
Essere contrari alla Lione-Torino oggi non è miopia, e nulla ha di retrogrado. Significa, nel profondo, mettere in discussione una modalità di intervento pubblico sui territori che non porta sviluppo, ma arricchisce solo le ditte di costruzioni e gli studi di ingegneria ed architettura.
La colossale crisi che attraversa l'economia capitalista indurrebbe, invece, ad una seria riflessione su quello che uno stato debba fare davvero a livello infrastrutturale: potenziamenti, ristrutturazioni, adattamenti.
E' finita l'epoca in cui più grande è e meglio è.
La ferrovia ad alta velocità che si vuole realizzare porterebbe merci, non persone. Quante merci si dovrebbero consegnare Torino e Lione prima di ripagare l'intervento in questione? Quanti anni dovrebbero passare?
E, soprattutto, siamo proprio sicuri che il mostruoso dispiego di energie (soprattutto repressive, finora) dello stato italiano abbia qualcosa a che vedere con le prospettive generali di sviluppo del paese?
Se è l'Unione Europea che ci chiede di fare l'alta velocità proprio quando, con il default greco sta fallendo intrinsecamente il progetto dell'Euro, che titolo ha questo sovra-stato di burocrati e banchieri di indurre noi a fare determinate spese che, tra l'altro, non siamo in grado di sostenere adesso?
- Adriano Sofri, Tav: perché non fare un referendum, repubblica.it, 3/03/2012
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