venerdì 28 maggio 2010

Nelle Mani Sbagliate

Ci sono fatti che strisciano sotto altri che, invece, godono delle luci della
ribalta. Di solito quelli che tutti possono vedere e conoscere non hanno valore,
sono degli specchietti per allodole, prodotti diretti della società dello
spettacolo; mentre quelli striscianti hanno bisogno di una costante e certosina
attenzione, li si nota solo - come si suol dire - leggendo tra le righe.
Ogni spirito che voglia dirsi davvero critico deve per forza di cose
scandagliare il testo e trovarvi il sottotesto.

Il fatto di cui voglio parlare e che tutti conosciamo è la crisi.
A lungo, forse da sempre, sentiamo dire che viviamo in un epoca di crisi
economica. Tranne che negli anni '60, conosciuti come "gli anni del boom", ed il
decennio degli "yuppies", i favolosi (e devastanti) anni '80, siamo stati sempre
immersi dentro la crisi.
In particolare dalla seconda metà degli anni '90, non si è più parlato né di
crescita né tantomeno di sviluppo. Di sicuro i parametri classici dell'economia
non incitavano ad un atteggiamento più ottimista. I paesi industrializzati hanno
cominciato a procedere - con l'esclusione non proprio ininfluente della Cina,
poi dell'India ed infine anche del Brasile - a ritmi di +0,5-1% di PIL per
semestre, quando andava bene.
Tuttavia, con un po' di buona volontà, si scopre che l'estetica del prodotto
interno lordo 'depresso' era una rappresentazione volutamente distorta della
realtà. Il fine di questa operazione era di presentare al corpo dei lavoratori
dipendenti la necessità di dover pagare loro stessi il conto di questa
inesauribile crisi.
Si è cominciato a dire che bisognava risanare il bilancio pubblico, e la
traduzione pratica di questo precetto era che questo 'risanamento' passava
inevitabilmente per l'introduzione del lavoro precario, l'innalzamento dell'età
pensionabile, lo svuotamento complessivo del welfare.
In Italia, tanto per venire a noi, la classe lavoratrice ha dovuto subire leggi
finanziarie sanguinarie, come quella di Amato, riforme laceranti del diritto del
lavoro (il pacchetto Treu), tasse per entrare in Europa, riforme delle sistema
pensionistico, tagli alla spesa sociale, al diritto allo studio. Il paese era in
'crisi' ed i lavoratori pagavano. Come se non bastasse in quegli stessi anni,
tutti i governi che si sono succeduti hanno proceduto alla svendita del
patrimonio immobiliare ed industriale dello Stato, in nome di un libero mercato
che però non è mai venuto.
I compagni argentini, per qualificare la classe politica che ha portato a
termine un saccheggio analogo a quello italiano, dicono: sono traditori. Il che
mi pare un termine adatto anche a tante personalità della politica e del
sindacato nel nostro paese.

Per una complessa serie di fattori, in determinati periodi ci si trova nelle
mani sbagliate, esposti alle razzie e all'ingiustizia.
Oggi questa situazione perdurante si è incredibilmente aggravata e, come sempre,
senza che i lavoratori ne abbiano alcuna colpa. Anzi, il disastro finanziario
esploso nell'ultimo trimestre del 2008, è notoriamente a carico di altri
soggetti, con nome e cognome.
Innanzi tutto le grandi banche e le agenzie di rating. Prodotti finanziari senza
valore, bilanci falsificati e previsioni fasulle hanno gonfiato diverse bolle
speculative fino all'inevitabile scoppio.
La stessa dinamica si è poi verificata con alcune finanze statali. Ne sono
coinvolti la Grecia, il Portogallo, la Spagna e probabilmente anche l'Italia,
solo per citarne alcuni.
E come ogni volta, inizia il tragico walzer della crisi. Da un giorno all'altro
ci si scopre "a rischio bancarotta". Ma è realmente così che stanno le cose?
Francamente è difficile dare credito all'ipotesi.
Il deficit è una costante per gli stati; tutti sono in deficit, e come diceva
Marx, il debito di uno stato non necessariamente è un fattore di rischio o di
povertà. Il debito, a certe condizioni, può essere addirittura una forma di
ricchezza.
Di sicuro c'è che la produzione è in grave contrazione da diverso tempo; il che
si riflette sulle entrate dello stato non solo in termini di mancato introito da
imposte, ma anche per gli esborsi che la pubblica amministrazione deve
effettuare come 'ammortizzatori sociali' (cassa integrazione, mobilità,
disoccupazione, prepensionamenti, sostegno ad imprese e banche, ecc.).
L'adagio che economisti ed operatori seguono in questi casi è che "bisogna
mantenere i conti sotto controllo" e "occorre ridurre la spesa pubblica". Due
frasi che sembrano di buon senso e che però nascondono la pressione sulla
politica affinchè la crisi venga arginata dalla sola componente a reddito
conosciuto, cioè i lavoratori dipendenti. I quali saranno chiamati a pagare,
anche stavolta, sotto forma di meno servizi (scuola, università, ricerca,
sanità, casa) e - per riflesso sui rapporti sindacali - di riduzioni reali e
nominali di stipendi, licenziamenti e peggiore trattamento pensionistico.

Questa pesante prospettiva induce ad una severa riflessione, che incalzi i
santoni del pensiero economico su ciò per cui l'economia ha senso di essere e
cioè la serenità materiale di tutti. Un disastro causato dall'avidità dei grandi
attori del mercato e non arginato dall'interessata sciatteria dei governi non
può essere lasciato ricadere per intero sulla parte debole della società.
Ovviamente le enunciazioni di principio non valgono a commuovere nessuno, tanto
meno chi non si è fatto scrupolo di depredare interi patrimoni e svuotare di
significato strutture aziendali di assoluto valore (vedi Eutelia-Aglie, per fare
un esempio tra i tanti possibili): oggi più che mai all'orizzonte della crisi
c'è un conflitto fortemente polarizzato, con il variegato fronte del capitale da
un lato e la massa frastagliata dei lavoratori di tutto il mondo, residenti ed
immigrati, uomini e donne, più o meno precari, più o meno garantiti.
Per ora questa guerra la sta facendo, con poche eccezioni, solo una parte, la
prima, mentre l'altra si limita a subirla per mancanza di un orizzonte comune.